Solo un Sogno?
57 anni dopo, le celebri parole pronunciate da Martin Luther King sembrano ancora lontane dall’essere realtà
Esiste una diretta correlazione tra sogno e realtà? Quante volte capita che quello che ci prospettiamo divenga poi un dato reale? Si può davvero sognare ad occhi aperti o è solo un modo come un altro per aggrapparsi ad un’effimera illusione?
Interrogativi che sembra triste doversi porre, ma che sorgono quasi spontanei quando il tempo dà le sue risposte e ci si rende conto di quanto l’energia spesa per perseguire quel sogno sia stata vana e che lo stesso sogno è rimasto tale: un’utopia, appunto.
Washington, Lincoln Memorial, 28 agosto 1963. Il leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani, Martin Luther King, durante la marcia per il lavoro e la libertà, pronuncia parole incisive, esprime pensieri profondi e coinvolgenti, dichiara il proprio credo. Un discorso che presto si spande a macchia d’olio e che diviene iconico: il pastore protestante, ancora una volta, ha fatto breccia nelle menti degli americani. Un sermone che diventa il simbolo della lotta al razzismo e alla violenza per perseguire quell’unico grande sogno: la libertà e l’uguaglianza di tutti gli uomini.
Poteva divenire effettivamente realtà, si sarebbe potuto realizzare nonostante i sacrifici e le dure lotte, ma oggi, a 57 anni di distanza, si deve fare i conti con la realtà e avere il coraggio di ammettere di aver miseramente fallito: quel gran bel sogno americano è, purtroppo, ancora oggi, solo un sogno.
Un sogno infranto, un ideale macchiato.
Nonostante tutto, però, c’è chi ci crede ancora e continua a perseguire quel principio.
Anche quest’anno, infatti, il 28 agosto si è svolta la manifestazione per ricordare il celebre discorso “I have a dream” pronunciato da Martin Luther King e per continuare a dire a gran voce “no” alla violenza e al razzismo. Un grido, quest’anno, ancora più doloso e dal quale stilla ancora qualche goccia di sangue, quello umano, sparso brutalmente e ingiustamente. Il titolo della manifestazione, infatti, non era affatto casuale ed era piuttosto eloquente: “Marcia dell’impegno, metti giù il ginocchio dal collo”, in ricordo dell’afroamericano George Floyd, ucciso soffocato dal ginocchio di un poliziotto il 25 maggio a Minneapolis. Alla marcia hanno preso parte anche i genitori di Jacob Blake, il ventinovenne afroamericano che pochi giorni prima, il 23 agosto, è rimasto paralizzato alle gambe dopo aver ricevuto sette colpi di pistola alla schiena dalla polizia durante un tentativo di arresto a Kenosha, nel Wisconsin.
Episodi incresciosi, violenza inaudita, disumanità disarmante. Il pianeta intero è sbigottito, attonito, inorridito. Il dissenso è necessario.
L’opinione pubblica è sconvolta e non tarda a farsi sentire: cortei di protesta in ogni dove del mondo, striscioni e fiaccolate di solidarietà, piccoli e grandi gesti di “gentile” ribellione. Anche il mondo dello sport si rifiuta di scendere in campo.
È possibile che nel ventunesimo secolo si debba assistere ad episodi di questa portata? Quanto può essere accettabile tutto ciò?
“I can’t breathe”, “Non riesco a respirare” – è diventato uno degli slogan associato al movimento Black Lives Matter. Sono proprio vicende simili che ci tolgono il fiato, ci fanno restare in apnea e ci impediscono di respirare, di sentire quell’incredibile odore di libertà che ci tiene in vita.
In un mondo in cui corriamo sempre in avanti senza alcuna sosta, dove puntiamo a salire sempre quel gradino in più per raggiungere una cima irraggiungibile, ci siamo dimenticati di essere umani.
L’auspicio, dunque, dovrebbe essere quello di imparare a fermarsi ogni tanto, ascoltare e tendere la mano a chi ci sta accanto, a chi è nato nostro simile, prenderla quella mano e formare il cerchio della fratellanza. Solo in questo modo, un giorno, potremo dire di aver lasciato echeggiare finalmente la libertà, solo allora nessun altro sogno sarà stato infangato, solo così il grande sogno del pastore protestante potrà dirsi realizzato.